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Scegliere di noi: identità, determinismo, libertà

“…E anche da questo può salvarci “solo” una passione, un sentire più forte degli altri che, strappandoci le maschere, ci metta di fronte a ciò che veramente siamo: libertà e possibilità.”

Annalisa Caputo

 Prima di qualsiasi ritorno riflessivo, l’uomo -o meglio, l’esserci– è originariamente aperto all’esistenza. Qualsiasi indagine sul tema della scelta risulterebbe vuota e priva di fondamento se non venisse descritto prima in che senso noi siamo sempre gettati nel mondo, proiettati in una dimensione progettuale, sempre nell’atto di creare noi stessi -soggetti del volere e del poter-essere- da sempre in un mondo con altri come noi.

Essere è tempo

Prima di tutto, quindi, appartenere ad un mondo comune che ci interessa, e avere un tempo limitato, anzi, essere un tempo limitato, sono le basi senza le quali non si potrebbe comprendere nessuna scelta umana. Per Kierkegaard è l’ansia per la finitezza della vita ad essere costitutiva dell’esistenza; Heidegger la chiama angoscia di morte: il limite invalicabile che ci riporta a noi, e ci fa scegliere davvero secondo il nostro sentire perché non c’è più tempo.     Nell’illuminante racconto di J.L. Borges, l’Aleph, quando il viaggiatore trova la città degli Immortali viene sorpreso da esseri dementi e trasandati, che letteralmente non si curano più di sé, e hanno dimenticato ogni cosa, finanche la parola: li chiama “i trogloditi”. La mortalità, dunque, è la condizione necessaria per muoversi, prendersi cura, progettare. Non dopo, non domani, adesso.

Accade però, che nel commercio con il mondo, il senso del progetto di sé si perda nel tentativo di compiacere gli altri o nel voler fare quello che si crede sia giusto: questa è la vita alienata vissuta nel segno dell’impersonalità e della chiacchiera, distante anni luce da chi siamo. Heidegger la chiama inautenticità, condizione necessaria per trovarsi insieme, ma nella quale si soffre, secondo modalità “scordate”, difettuali dell’esistere descritte da Ludwig Binswanger. La patologia psichica si innesta qui, in una armonia perduta, nel senso di estraneità ed alienazione.

Nel corso della vita, l’uomo:

 “[…] può, nel suo esserci o “scegliersi”, conquistarsi, oppure perdersi e non conquistarsi affatto.”

L’autentico heideggeriano è l’esserci che si appropria di sé progettandosi a partire dalla possibilità più sua: l’autenticità è appropriazione dell’esperienza in corso nei suoi significati e la sua incorporazione in un progetto di vita. Scegliersi e conquistarsi di volta in volta, secondo inclinazione propria, “gettando la maschera“.

“Ogni cosa al mondo mi interpella e mi chiede di scegliere di me.”

 L’apertura al tempo genera una soggettività scissa, e proprio per questo viva nello slancio verso di sé. La persona è dunque il correlato di un mondo di possibilità d’azione, che lo invita a prendere posizione; ogni scelta è una presa di posizione che non può che comprendersi in questo scarto, in questa distanza tra chi si è e chi si vuole essere. La volontà è ciò che tiene insieme il “chi” che progetta ed il progetto stesso. Lungi dall’essere un esercizio della ragione pura, la scala dei valori personale è sentita emotivamente. Il medesimo fatto, ad esempio prendere un bel voto a scuola, viene sentito come un valore solo se mi interpella come elemento fondante della persona che voglio essere; solo se ne va di me. Voglio essere colui o colei che prende un bel voto? Domanda che acquisisce senso  solo se compresa nello spazio della mia esperienza passata, ma soprattutto in-vista-di, ovvero alla luce del progetto che siamo.

Un caso letterario: la Eveline di Joyce

James Joyce scrisse Gente di Dublino nel 1914, otto anni prima rispetto alla pubblicazione dell’Ulisse, da molti considerato il manifesto più compiuto dei modi di sentire moderni, ed in particolare dell’ansia e della disgregazione dell’identità che inizia ad affiorare alle coscienze nei primi del ‘900. I racconti che compongono il romanzo tratteggiano con perizia clinica infatuazioni, perversioni, timori e nevrosi che possiamo facilmente sentire nostri. Eveline, protagonista dell’omonimo racconto, è divisa tra il dovere di restare a Dublino ad occuparsi della casa di famiglia e la possibilità di inseguire l’amore, ma resta paralizzata dall’enormità della decisione. Joyce descrive mirabilmente il suo attacco di panico:

“Non parlava. Si sentiva le guance esangui e fredde e in quella sua disperata confusione si rivolgeva a Dio chiedendogli di guidarla, di indicarle la cosa giusta da fare.(…). Se partiva, l’indomani si sarebbe ritrovata sul mare con Frank, diretta a Buenos Aires. I biglietti per la traversata erano pronti. Come tirarsi indietro dopo tutto quello che Frank aveva fatto per lei? L’angoscia le salì dentro come una nausea, e continuò a formulare con le labbra una preghiera fervente. Una campana le rintoccò nel cuore. Sentì che Frank le stringeva una mano : “Vieni!”. Tutti i mari del mondo le si riversarono sul cuore. Lui voleva trascinarla in essi, la voleva annegare. No! No! No! Era impossibile. (…) Lui correva al di là della ringhiera, le gridava di seguirlo. Rivolse verso di lui il viso pallido, sembrava quello di un animaletto inerme. E i suoi occhi non gli diedero nessun segno di amore o d’addio o di riconoscimento.”

 Perché Eveline ha così paura? La protagonista si anticipa che quell’azione cambierà per sempre la sua identità. Muterà indelebilmente la risposta alla domanda “Chi sono?”, perché lei diventerà irrimediabilmente colei che è salita su una nave e ha lasciato la casa di famiglia. Proprio per questo il terreno sotto i suoi piedi vacilla, il mondo tutto si disfa e traballa, diviene indistinto ed evanescente come un paesaggio sommerso dall’acqua. Dentro di lei, il futuro viene prima del presente e prima del passato, l’orizzonte si schiaccia e si contrae, perché Eveline deve scegliere ed in quella scelta ne va di lei, e lei non è pronta. Spaesamento, uno dei caratteri fondamentali dell’esistenza; essa obbliga te, e nessun altro, a mettere continuamente radici nella tua vita scegliendo. Di fronte alla tua vita, e alla tua morte, ognuno è isolato ed è chiamato in causa.

Scegliere è un atto di definizione e responsabilità, significa riconoscersi e porsi come fondamento della propria vita; ma solo con la scelta si possono sbloccare orizzonti, di guarigione, anche, nel contesto della psicoterapia. Se in ogni istante scegliamo chi siamo, ne deriva che l’identità è sempre nell’atto di farsi, mai compiuta. Secondariamente ma non in secondo piano, chi siamo noi non è -solamente- nel nostro passato, ma nel futuro: abbiamo da essere. Dobbiamo ancora condurci a noi stessi.

Un senso di speranza, quindi, di libertà dal determinismo psichico che tiene incatenata la maggioranza delle concettualizzazioni del Sé in psicologia clinica; se per scoprirci e capirci siamo obbligati a fissare il nostro sguardo su un già avvenuto che mi precede, è naturale che il mio futuro ne venga impoverito, appiattito da una visione che solo all’apparenza si discosta dalla coazione a ripetere di freudiana memoria: la mia medesimezza (ciò che di me non muta) si è mangiata la mia ipseità (l’esser sempre in mano mia dell’esperienza).

E ogni giorno, dimentichi dello slancio vitale e delle possibilità del mondo, rileggiamo lo stesso oroscopo che tenderemo a voler pacificamente riconfermare. La storia personale assume la fissità del ritratto; è possibile solo perdonare o dimenticare, non cambiare. In questo modo il rischio di patologia è elevato, perché si perde di vista il carattere temporale dell’esistenza, e ci si adagia in un eterno ritorno del già visto, doloroso, ma tranquillizzante. Anche se “afferrandosi ad un sostegno, ci si perde nel nulla; lasciandosi andare si conquista l’Origine.” (Kokai, maestro giapponese 1403-1469)

Sé e Sé: la dialettica incompiuta

Come scrisse Sartre, richiamato dal futuro, il Sé abbozza il proprio progetto di senso, che è lo scopo della volontà, ma in questo modo si crea uno scarto temporale tra sé e sé, chi sono ora, chi non sono ancora. Non sono abbastanza “quel futuro che devo essere e che da senso al mio presente”.  Quella tra Sé e Sé è una dialettica incessante, spezzata, e proprio per questo fonte di tensione tra i due termini, una tensione che tiene viva la ricerca di sé. In Fenomenologia dello Spirito (1807) Hegel elabora un modello dialettico della realtà: Idea, Materia e Spirito (Tesi- antitesi- sintesi); una struttura tripartita che si auto-afferma e si completa con la riappropriazione del positivo mediante una negazione del negativo.

Soltanto parzialmente possiamo sovrapporre questa riflessione all’identità personale; sebbene nell’agire l’uomo prenda consapevolezza anche di ciò che non è e che non fa passando dalla mediazione delle alterità e nella dispersione della mondanità, Paul Ricoeur -autore fondamentale per la tematica dell’identità personale- rinuncia in modo forte alla visione hegeliana, nella quale la dialettica è compiuta e i due poli sono conciliati.

La persona è sì una totalità, ma una totalità che si racconta, sempre aperta, che, nel suo movimento estatico è perennemente all’incalzante ricerca di mediazione tra Sé e Sé e tra Sé e gli altri, una mediazione fragile e provvisoria.

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Bibliografia

  • Liccione, D. Psicoterapia cognitiva neuropsicologica. Bollati, Verbania 2011.
  • Costa, V. Distanti da sé: verso una fenomenologia della volontà, Jaca Book, 2011.
  • Heidegger, M. (1927) Essere e tempo, Oscar, Milano 2005.
  • Heidegger, M. Seminari di Zollikon, Guida Editore, Napoli, 2000
  • Caputo, A. Pensiero e affettività: Heidegger e le Stimmungen, Franco Angeli, Milano 2001.
  • Caputo, A. Io e tu: una dialettica fragile e spezzata, percorsi con Paul Ricoeur, Stilo Editrice, 2009.
  • Arciero, G. Sulle tracce di sé, Bollati, Torino 2006.
  • Ricoeur, P. Sé come un altro, Jacabook, 2011.