Tag Archives: social cognition

Lo specchio infranto

Dalla psicologia alla fenomenologia dell’empatia

cf781e807b55bc8e8dfb7071e573aac7“Lo specchio ora accresce il valore delle cose, ora lo nega. Non tutto quello che sembra valere sopra lo specchio resiste se specchiato. Le due città gemelle non sono uguali, perché nulla di ciò che esiste o avviene a Valdrada è simmetrico: a ogni viso o gesto rispondono dallo specchio un viso o gesto inverso punto per punto. Le due Valdrade vivono l’una per l’altra, guardandosi di continuo negli occhi, ma non si amano.

Italo Calvino, le città invisibili (1972)

L’enigma dell’altro e dell’esperienza empatica è da sempre stato un problema centrale nel dibattito filosofico e nella ricerca psicologica: l’esperienza dell’alterità è profondamente strutturante: ci determina, ci deforma e ci trasforma, tessendo la trama del nostro mondo culturale e sociale. L’etimologia greca del termine “empatia” rimanda a ἐν (en), “in”, e –πάθεια (pàtheia), dalla radice παθ– del verbo πάσχω, “soffro”, sul calco del tedesco Einfühlung, “sentire dentro”); con essa si intende la capacità di comprendere lo stato d’animo e la situazione emotiva di un’altra persona, in modo immediato e talvolta senza far ricorso alla comunicazione verbale. Con l’ausilio del movimento all’interno della tradizione fenomenologica mi accosterò al fenomeno dell’empatia dalla tradizione mentalistica ad una lettura che vede il rovesciamento del modello classico alla luce dell’analisi dell’esperienza del nostro aurorale con-esserci.


Come comprendiamo gli altri: teoria, simulazione, analogia?

L’argomento classico in psicologia cognitiva fa riferimento alla nota teoria della Teoria della mente: conosciamo gli altri per mezzo di un processo di natura inferenziale e deduttiva, adottando un atteggiamento teoretico, scientifico e per così dire “freddo”: gli stati mentali (sia epistemici che motivazionali) sono soltanto inferibili, postulabili; una rappresentazione interna dell’altro che si struttura di pari passo alla maturazione cognitiva. Una concezione simile affonda le sue radici nella netta separazione –cartesiana- tra coscienza individuale e mondo: l’alter-ego diviene l’esterno inconoscibile e “dubitabile”, sondabile solo mediante l’esercizio di una ragione solitaria.

L’analisi dell’esperienza palesa da subito come il fondamento della conoscenza abbia fin dall’inizio un carattere intersoggettivo e non ci sia un momento in cui la mia individualità non sia rivestita di quel carattere di socialità e condivisione che è così profondamente umano. Tuttavia ci si chiede come avvenga questo incontro, fra l’Io e la pluralità, ovvero in che modo incontriamo l’altro? L’Ego cogito cartesiano, così come l’Io penso kantiano, ovvero quella forma di soggettività assoluta demondanizzata e disincarnata, è del tutto incapace di incontrare l’altro; anzi, l’esistenza dell’altro costituisce per lei uno “scandalo” di tali proporzioni da non essere risolvibile nemmeno con la più raffinata delle dialettiche: senza contemplare un’esperienza originaria dell’altro, in che modo la coscienza dell’ “Io” può divenire coscienza dell’altro?

Un argomento classico in fenomenologia è rappresentato dalla nozione di analogia: la sola mente alla quale ho accesso diretto è la mia, mentre la possibilità di accedere alla sfera mentale altrui è sempre mediata dal suo comportamento corporeo: osservando come il mio corpo e il corpo degli altri sia influenzato e agisca in maniera simile, inferisco per analogia che il comportamento degli altri è associato ad esperienze simili a quelle che ho io stesso quando mi comporto così. Husserl fa propria questa argomentazione, sostenendo che l’altro venga incontrato mediante una “presa analogizzante”: viene per così dire appaiato al mio modo di sentire, a partire dalla percezione di similarità dei modi di reagire della carne. Scheler ci aiuta a trovare delle criticità in questa teoria: essa è ancora legata ai limiti della prima fenomenologia, ovvero ad una netta distinzione tra una sfera intramentale –la coscienza, che deve essere inferita– ed una comportamentale della quale si fa diretta esperienza. Non siamo perciò così distanti dai presupposti generali del mentalismo: il problema concettuale delle altre menti –come uscire dalla nostra ed entrare nella loro?- erede della filosofia cartesiana e del monadismo delle coscienze.

Un altro gruppo di teorie chiamano in causa invece il concetto di simulazione, figlia, per così dire, dell’argomento dell’analogia. La teoria della simulazione esplicita di Goldman sostiene che la radice della comprensione della mente altrui risiede nell’abilità di proiettarmi nei “panni mentali” dell’altro attraverso l’esercizio della simulazione della situazione che esperisce l’alter ego e della proiezione della stessa sull’altro. Si potrebbe obiettare: se io proietto i risultati della mia simulazione sull’altro, quello che comprendo è solo me stesso in una situazione analoga a quella in cui si trova l’altro, non necessariamente l’altro. Il processo simulativo, per sua stessa definizione, ha come protagonista me, e si declina in uno sforzo immaginativo che potrebbe essere un reiterare noi stessi. Dove incontro l’altro nella possibilità della sua diversità?  Le neuroscienze supportano l’idea della simulazione, portando il fenomeno su un piano però implicito e sub-personale: mi riferisco alla scoperta dei neuroni specchio. Un gruppo di ricercatori guidati dal professor Giacomo Rizzolatti osservarono, durante una serie di ricerche sull’area premotoria della corteccia cerebrale dei macachi, che nell’area F5 , rivelatesi più eterogenea di quanto si pensasse inizialmente dal punto di vista strutturale e funzionale, vi erano dei neuroni che rispondevano non solo quando la scimmia effettuava una determinata azione, ma anche quando osservava lo sperimentatore compiere la stessa azione; tali neuroni presero l’evocativo nome di neuroni specchio o mirror, (Rizzolatti et al., 1996a; Gallese et al., 1996) proprio in virtù della capacità loro propria di ‘rispecchiamento’ dell’azione osservata e di quella compiuta ad essi sottesa. La proposta che la comprensione del comportamento altrui (per lo meno ai livelli più semplici) venga gestita da processi di simulazione pre-riflessivi, automatici e scolpiti dall’esperienza percettiva dell’individuo offre un’alternativa deflazionaria ai vari tentativi di spiegare i meccanismi soggiacenti allo sviluppo della cognizione sociale per mezzo della teoria inferenziale deduttiva.

Le medesime riserve succitate possono essere trasferite alla teoria della simulazione implicita: il problema principale resta appunto: quale nesso c’è tra simulazione e comprensione? Tra capacità di simulare un comportamento e comprensione profonda delle intenzioni non c’è un nesso di fondazione: la capacità di imitare o simulare anche perfettamente un’azione non svolge alcun ruolo nella sua comprensione![1].

Ciò è stato detto anche per quanto riguarda la comprensione delle emozioni; “il cervello costruisce parte della conoscenza sociale simulando lo stato emozionale di una persona osservata: noi sappiamo come si sentono le altre persone perché rispecchiamo i loro sentimenti[2]” Se l’empatia è rispecchiamento, chi vedo in uno specchio se non me stesso? Attivare i sentieri delle abitualità corporee iscritti nella carne significa davvero comprendere l’intenzionalità delle azioni? O soltanto riconoscerle come parte del nostro repertorio di gesti quotidiani? Se simuliamo l’azione nella carne possiamo averla riconosciuta, ma per comprendere l’intenzione, non dovremmo simulare l’intenzione stessa -nelle sue coordinate storiche ed esistenziali- e non semplicemente un engramma motorio? Sicuramente è presente una forma di risonanza neurale delle azioni comuni, e questa può essere la base per la comprensione, perlomeno a bassi livelli, ma è certo che il fenomeno non può esaurirsi in questa concettualizzazione, soprattutto se lasciamo fuori la polarità fondatrice e costitutrice del senso delle azioni: il mondo.

L’attivazione dei neuroni mirror può essere concepita come l’afferramento del senso di quello che l’altro sta compiendo nel mondo, come l’attivazione di strutture geneticamente programmate per l’iscrizione di rimandi di senso condiviso: una carne (il cervello) che si è mondanizzata con l’esperienza.  Per una comprensione genuina dell’altro non devo soltanto cogliere ciò in cui esso è simile a me: la tradizione fenomenologica mette l’accento su una forma di comprensione più profonda e più squisitamente esistenziale: tutto ciò che mi separa e mi rende diverso da ‘te’.

 


L’intimità della differenza

 

“Ma solo pensare a te.
Non è una figura che viene
una nitida traccia.
È come cadere in un posto
con un po’ di dolore.”

Mariangela Gualtieri, ‘Alcesti
Bestia di Gioia (2010)

Dunque nell’aggancio che abbiamo definito pre-riflessivo all’altro io provo davvero il dolore, la gioia, la tristezza dell’altro? Secondo Edith Stein quando esperiamo gioia perché l’Altro è felice non esperiamo una gioia originaria: quell’emozione non sorge dalla corrente temporale dei miei vissuti, non si apre all’interno della mia storia di vita e non sarà nemmeno, a posteriori, ricordata e storicizzata come mia. La gioia “empatizzata” è vissuta come originaria dall’altro, ma non da me; in pratica, immedesimarsi nell’altro, perfino essere presso la sua accordatura emotiva, essere nella gioia perché lui è nella gioia non significa provare la sua gioia, avere il suo mondo, essere lui. La sua gioia scaturisce dal suo essere tempo e storia e attese irriproducibili, per forza disallineate dalle mie.

Se le emozioni sono atti intenzionali che creano oggetti, l’oggetto a cui tende la gioia dell’altro non è lo stesso mio: l’oggetto del nostro sentire è l’Altro, non il suo pezzo di mondo –la donna che lo ha fatto innamorare e per la quale prova gioia e amore-; quindi la condivisione dell’emozione non consiste nell’avere lo stesso oggetto intenzionale come correlato dell’emozione. Il modo di datità dell’altro, ovvero come l’altro si dà alla mia esperienza è sempre quello di un essere come me, ma distinto da me.    Esso è sempre per me un mistero, eternamente mi si sottrae, per Levinas “sfugge alla mia presa[3]”; l’altro è qualcuno che può “promettere e dunque mentire”, ingannarmi, qualcuno che nell’essere mio simile è sempre necessariamente e dolorosamente diverso: “Una sottile ma chiara differenza ci impedisce di essere Uno; ci impedisce, quindi, la trasparenza senza veli, il linguaggio senza ostacoli, che porta all’uno tutto ciò che è dell’altro e viceversa”[5].

“ognuno è per l’altro e verso l’altro ma mai nell’altro o al posto dell’altro [5]

Se non facessi esperienza di questo scarto, di questa non-assimilabilità, non starei facendo esperienza dell’altro, e cadrebbero i presupposti stessi della nozione di empatia. Non solo la riduzione dell’altro a me è ontologicamente impossibile, ma nemmeno “eticamente” lecito: l’accadere stesso dell’affettività ce lo mostra: quanto più è intimo il legame, tanto più diventiamo consapevoli di quanto l’altro sia diverso da noi, ed è proprio nel rispetto di questa diversità che nasce e cresce l’intimità e germoglia il bisogno di riconoscimento. Dall’inconciliabilità dell’Io e del Tu nasce il dolore della differenza, l’ineliminabile dell’intersoggettività, ma fondamento della stessa relazionalità, che non diviene quindi con-fusione. E questa differenza non potrei comprenderla se non ci fosse un mondo, un mondo comune, un prisma di possibilità e di storie che non sono le mie.

Con un capovolgimento che dovrebbe far riflettere, non conosciamo l’altro perché ci rispecchiamo in lui, ma diventiamo intimi rompendo lo specchio.

 


L’essere insieme nel mondo

 

In che modo è quindi possibile parlare di empatia in termini fenomenologici senza ritornare alla solitudine della coscienza individuale fondatrice di mondo di stampo cartesiano? È proprio Martin Heidegger che abbatte le barriere tra le coscienze con la nozione di mondo. L'”io” isolato, in sé, non c’è mai stato: c’è un vivere con le cose, le persone e la realtà in cui sono inserito, “..uno schiudersi reciproco e contemporaneo: intimità, vibrare di io-mondo-cose-altri.[6]” Heidegger porta l’attenzione sull’errore di scindere ciò che era originariamente unito per poi cercare di gettare un ponte. Si coglie nella vita, un ritrovarsi già con gli altri nella stessa –fluida- rete di rimandi: il con-esserci mi precede: ogni tentativo di separazione genera aporie, separazioni illusorie, così difficili da riconciliare proprio perché niente è mai stato separato.

“Avvertire che ciò che è più mio, scampato anche alla tempesta, è anche ciò che mi lega alla realtà (…): il volto della storia o della natura o delle cose o degli altri –che mi parlano di me, del mio essere con loro, dell’impossibilità di liberarmi di questo ‘con’.”[7]

La domanda sulla possibilità di accedere alla coscienza altrui emerge solo in una determinazione ontologica secondo la quale un mondo di semplici-presenze sia sfondo per coscienze incapsulate, Io-sfere, per ciascuna delle quali le altre coscienze sono altro-sfere, verso le quali possiamo essere mossi da curiosità epistemologica come se studiassimo fenomeni atmosferici o le regole del moto. Più che trovare una risposta, la fenomenologia heideggeriana dissolve la domanda. Il rapporto con l’altro è più originario del soggetto stesso. Pertanto il rapporto diadico Io-Tu della tradizione psicologica si trasforma in un rapporto a tre: Io-mondo-altro. Nulla è quindi “sentito dentro”, perché nulla è originariamente fuori, da introiettare. Comprendo la tua posizione nel mondo che da sempre condividiamo e che abbiamo entrambi… all’interno del quale siamo con-gettati.  La società stessa non è costruita tanto dall’empatia, ma dall’interazione, dalla struttura di rimandi e di reciproche correzioni, aggiustamenti, compromessi che è il mondo. È proprio l’inaccessibilità dell’altro che determina la struttura della socialità e la condizione di possibilità della stessa. Siamo insieme non basta, in che modo lo siamo? Nella forma della contrattazione, dello scambio, del dialogo, dell’incomprensione e del chiarimento. Nessuna coscienza separata fonda la verità e la ragione in senso solipsistico, ma la ragione è intersoggettiva, ed è uno sforzo intenzionale in divenire costante, un compito di chiarificazione ed esplicitazione del nostro “essere-nel-mondo”[9].

Secondo Merleau-Ponty, non vi sono più percezioni private, cose che vedo solo io: “Il tavolo è ormai un tavolo”, è un ritorno su di me del visibile del mondo comune. Sviluppando la tematica della corporeità e dell’intercorporeità, si getta anche una nuova luce sulla tematica dei qualia, proprietà irriproducibili della mia percezione: il mio rosso è il tuo stesso rosso? L’autore risponde affermando che non è vero che i miei colori sono un mistero per te, dal momento che facciamo esperienza insieme dello stesso tramonto e dal momento che io posso parlarne e comunicare, questo “mio rosso individuale invade la tua visione senza abbandonare la mia[8]”: i nostri paesaggi si sono aggrovigliati e reciprocamente adattati.


BIBLIOGRAFIA

[1] Costa, V. Fenomenologia dell’intersoggettività: empatia, socialità, cultura, Carocci Editore, Milano 2010, pag.116

[2] R. Adolphs, Emotions, Social cognition and the human brain, in T. Cacioppo, G. G. Berntson eds. Essays in Social Neuroscience, The MIT Press, Cambridge (2004).

[3] Levinas, E.  Totalità ed infinito (1961).

[4] Costa, V. Fenomenologia dell’intersoggettività: empatia, socialità, cultura, Carocci Editore, Milano 2010, pag.116

[5] Caputo, A. L’arte, nonostante tutto, Edizioni CVS, Roma 2012.

[6] Caputo, A. Pensiero e affettività: Heidegger e le Stimmungen, Franco Angeli, Milano 2001, pag. 109

[7] Caputo, A. Pensiero e affettività: Heidegger e le Stimmungen, Franco Angeli, Milano 2001.

[8] M. Merleau-Ponty, il visibile e l’invisibile, cit. pag.158

[9] Costa, V. Fenomenologia dell’intersoggettività: empatia, socialità, cultura, Carocci Editore, Milano 2010.

[10] Gallagher, S. Zahavi, D. La mente fenomenologica, Raffaello Cortina Ed, Milano 2009.