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L’inganno nella ricerca psico-comportamentale: può il fine giustificare i mezzi?

Il problema della legittimità delle posizioni contro l’uso dell’inganno a scopi scientifici

L’uso della tecnica dell’inganno  è particolarmente diffuso nella ricerca psicologica, proprio per la peculiarità di questo dominio scientifico. I dati ottenuti, infatti, si basano su indici comportamentali correlati alle credenze del soggetto, a partire dai quali si attua un processo inferenziale su costrutti non empiricamente osservabili. Importante è perciò controllare gli effetti di distorsione dovuti al soggetto sperimentale, e l’inganno consiste proprio in un provvedimento di questo tipo: fare credere ai soggetti che la situazione sperimentale si a qualcosa di diverso rispetto a ciò che gli sperimentatori stanno in realtà studiando e manipolando.  Questo tipo di controllo può diventare eticamente problematico ed è fonte di un acceso dibattito; da un lato, i critici che sostengono l’illegittimità dell’inganno si appellano alla tendenza dei ricercatori a sovrastimare il valore dei propri esperimenti in rapporto ai rischi insiti nella procedura. Paradossalmente però, a livello fattuale, si fa fatica ad affermare che cosa ci sia di sbagliato nell’inganno ed in che modo i soggetti soffrano direttamente questa condizione.

Alcuni autori, come Edgar Vinacke (1952) si sono chiesti se effettivamente l’inganno abbia un effetto così fortemente negativo sui soggetti. Il Codice Etico proibisce esperimenti che presuppongono rischi significativi, lasciando nel vago che cosa si intenda per “significativo”: di fatto, il rischio più evidente che si può osservare è un modesto livello di stress nei soggetti, specialmente nei casi in sui la ricerca induca uno stato d’ansia negli stessi servendosi di informazioni false.  Se si pone la questione in una differente prospettiva ci si accorge di come non soltanto i partecipanti della ricerca raccolgano le conseguenze psicologiche dell’inganno, ma anche gli ingannatori, ovvero lo sperimentatore stesso o i giovani collaboratori a cui è stato chiesto di ingannare. Testimonianze in questo senso aiutano a costruire un quadro di disagio che è stato definito il dilemma personale del ricercatore che inganna ( deceptive researcher’s personal dylemma). Il punto è che se noi ci servissimo soltanto di evidenze empiriche per screditare l’inganno nelle ricerche non troveremo argomenti abbastanza validi per sostenere le nostre argomentazioni: non tutti gli effetti dell’inganno sono visibili a livello superficiale. La questione deve essere estesa ad un livello morale. Rispetto alla distinzione tra ricerca medica e ricerca psicosociale, il “danno” ai soggetti è di natura qualitativamente differente: in psicologia non si può parlare di “evidenti danni alla persona”; ne segue che le implicazioni morali non possono essere comuni nei due domini e non si può estendere i principi dell’una tout court all’altra.

Molti oppositori dell’inganno, per dare forza alle loro argomentazioni, si appellano al famoso esperimento di Stanley Milgram (1960), che di per sé costituirebbe evidenza sufficiente dell’illegittimità dell’inganno e delle condizioni sperimentali.Il disegno sperimentale prevedeva che il soggetto, nei panni dell'”insegnante”, facesse delle domande a quello lui riteneva essere un semplice “allievo” e che in realtà era un confederato (un collaboratore dello sperimentatore): in caso di errore, il maestro doveva somministrare all’allievo scosse elettriche di intensità variabile. Tutto ciò accadeva in presenza dello sperimentatore, l’autorità scientifica con camice e badge, che incoraggiava il soggetto a proseguire l’esperimento.
Si trattava, ovviamente, di finte scariche elettriche, in quanto l’allievo fingeva di provare dolore; il soggetto però era posto nella condizione di esperire una situazione stressogena reale, ed era pertanto sottoposto ad un dilemma morale non indifferente: dare retta all’autorità oppure ascoltare la coscienza empatica?
Contrariamente alle aspettative, nonostante i 40 soggetti dell’esperimento mostrassero segni di tensione e protestassero verbalmente, ben il 62% di questi obbedirono pedissequamente allo sperimentatore, arrivando a somministrare il grado massimo di intensità delle finte scosse. Questo stupefacente grado di obbedienza è stato spiegato in rapporto ad alcuni elementi, quali l’obbedienza indotta dalla presenza di una figura autoritaria considerata legittima e la conseguente induzione di uno stato eteronomico. Questo stato psicologico è caratterizzato dal fatto che il soggetto non si considera più libero di intraprendere scelte autonome, ma strumento per eseguire ordini. Come Bandura (1986) aveva evidenziato, si tratta di un meccanismo di disimpegno morale (moral disengagement) chiamato dislocazione della responsabilità: il soggetto si “libera” virtualmente dell’onere della decisione morale trasferendo la responsabilità su individui che percepiscono come su un livello superiore della scala gerarchica a seconda del contesto.

In che modo, in quella situazione, i soggetti sperimentali sono stati danneggiati dall’inganno? Clarke (1983) afferma che l’urto psicologico che essi hanno ricevuto è stato quello di scoprire spiacevoli verità su se stessi: nella fattispecie, hanno scoperto di essere più facilmente assoggettabili di quanto avessero supposto, e si sono esperiti come capaci di infliggere sofferenza ad un altro essere umano sotto coercizione. Un’altra tra i primi detrattori dell’esperimento è stata Diana Baumrind, che riprende il concetto esposto da Clarke e lo chiama presa di coscienza forzata (inflicted insight) di lati della propria personalità che avrebbero dovuto rimanere nascosti.  Il danno esiste, quindi, ed è a carico dell’autostima del soggetto e della percezione di sé; non solo i partecipanti hanno subito la rivelazione di un “lato oscuro” di loro stessi, ma hanno anche sperimentato la scarsità della propria autodeterminazione in contesti di forte pressione sociale nonché la facilità con cui si sono sentiti di delegare la responsabilità morale delle loro azioni all’autorità scientifica.

Tuttavia, il problema principale consiste sempre nel dimostrare come l’inganno in sé abbia danneggiato i partecipanti. Il fatto che non ci sia una connessione chiara tra qualsiasi danno psicologico alla persona e l’inganno stesso porta la questione della critica all’inganno ad immettere che l’imbroglio appare secondario se si guarda l’insieme delle procedure adottate nella sperimentazione. Quindi, se è perfettamente concepibile rivolgere critiche al disegno di Milgram e perfino affermare che la progettazione del disegno di ricerca sia stata lesiva dal punto di vista psicologico nei confronti dei soggetti, altrettanto meno ovvio è affermare che sia stato nell’inganno  l’illecito dell’esperimento.

In conclusione, i detrattori si aggrappano a differenti linee critiche: da un lato affermano che Milgran e collaboratori abbiano peccato nel sovrastimare l’importanza della sua scoperta e nel sottostimare i danni da essa provocata nell’immaginario collettivo e nella coscienza del singolo. Tuttavia, coloro i quali si sono proposti di dimostrare la nocività dell’inganno hanno fallito nel loro intento, non procurando alcuna evidenza fattuale.  Soltanto la filosofia pratica può fornire una risposta: il vero danno è nei princìpi, non nei fatti. Un danno che non è neppure suscettibile ad un calcolo utilitaristico, né tantomeno ad un bilancio costi/benefici, ma che affonda le sue radici nel rispetto della persona e in una concezione dell’individuo come entità autonoma e alla quale si deve onestà e chiarezza di intenti. Ciò influenza anche la relazione tra soggetto e sperimentatore; come, in realtà, i soggetti dovrebbero essere partecipi e collaborativi nel progresso piuttosto che “burattini ciechi” al servizio della scienza, “banche dati” potenzialmente “reattivi” e quindi fonte di distorsione. L’inganno, nella forte posizione sostenuta da Sissela Bok nel suo testo Lying (1989), è visto come l’equivalente di un insulto fisico alla persona: entrambi possono essere utilizzati per forzare ad agire contro la propria volontà; è una manipolazione tanto del comportamento umano quanto delle credenze soggettive e degli stati mentali.  “Trattare l’individuo sempre come fine e mai come mezzo” così è stato scritto da Kant nella sua Critica alla ragion pratica (Kritik der praktischen Vernunft, 1788); questo è il punto di vista della filosofia  morale. Tuttavia, dal punto di vista della ricerca scientifica sul comportamento umano, è un’utopia pensare di eliminare del tutto la componente dell’inganno dai disegni sperimentali, essendo l’obiettivo perseguito dalla comunità scientifica ottenere informazioni sulla mente e sul comportamento umano che siano il più possibili generalizzabili ed aderenti a quanto avviene in condizioni “naturalistiche”; basti pensare a quanto è importante l’istituzione dei gruppi placebo nei trial farmacologici.

Ancora una volta ci troviamo di fronte ad uno fra i più importanti dilemmi tra scienza ed etica: in che modo può avvenire la loro reciproca influenza e compenetrazione?

Bibliografia:

– Herrera, C.D. (2001) Ethics, Deception and Those Milgram Experiments, J. Applied Philosophy, 18.

-Arrigo, P., Gnisci, A. (2004) Metodologia della ricerca psicologica. Il Mulino.

-Scrag, B. (1997) Commentary: the ethics of deception in social research. Graduate Research Cases,1.

– Caprara, G.V. (1997) Bandura. Franco Angeli, Milano.