Il problema dell’identità nell’epoca postmoderna

Fin dall’inizio del secolo passato il progresso tecnologico, che ha messo l’individuo a contatto con realtà diverse a cui ci si può rapportare nei modi del desiderio, ha annullato le distanze, le attese, rendendo tutto più raggiungibile, consegnando l’ampio palcoscenico della variabilità esperienziale e mostrando la proliferazione delle possibilità di essere direttamente attraverso il tubo catodico. Nuove forme di comunicazione a distanza trasformano i modi di esperire il mondo. Citando Arciero, “la velocità si insinua silenziosamente nella vita quotidiana elicitando nuovi tipi di emozioni“.
Avanzando ulteriormente, nell’era di internet le distanze e i tempi morti si cancellano, tutto è disponibile subito, condiviso da tutti e chiunque può contribuire a plasmare una conoscenza condivisa ed in continuo mutamento, mai uguale a sé stessa, foriera anche di inganni, contraddizioni e trappole.
Risuonano alla mente i versi profetici e carichi di nostalgia del poeta inglese T.S. Eliot, che nella prima metà del XIX secolo scriveva: ” Dov’è la saggezza che abbiamo/ perso nella conoscenza?/ Dov’è la conoscenza che abbiamo/ perso nell’informazione?”.
La tecnologia, rendendo l’uomo libero di spostarsi, di comunicare e di avere accesso preferenziale e facilitato a più alterità ha fatto emergere un nuovo carattere sociale, il terzo tipo, che Reisman chiama eterodiretto (other-dyrected).
L’individuo nella società eterodiretta osserva l’alterità variegata e mutevole del sociale esibito per cercare le linee su cui modellare il proprio sentire, i propri desideri e le proprie emozioni. L’uomo contemporaneo è costantemente sintonizzato su alterità che però sono in continuo mutamento: contesti, relazioni, ruoli, circostanze, modelli, progetti che non sono più immutabili e pre-determinati ma labili e transitori.
Zygmunt Bauman ha descritto questo aspetto fondamentale come “liquidità” della vita moderna. Una società può essere definita liquido-moderna se le situazioni, i contesti in cui si muovono gli uomini si modificano prima che i loro modi di agire riescano a consolidarsi in abitudini e procedure.
L’esistenza è sotto il segno dell’instabilità, come Italo Calvino magistralmente descrive attraverso l’immagine della città di Eutropia ne “Le città invisibili”:
“Il giorno in cui gli abitanti di Eutropia si sentono assalire dalla stanchezza, e nessuno sopporta più il suo mestiere, i suoi parenti, la sua casa e la sua via, i debiti, la gente da salutare o che saluta, allora tutta la cittadinanza decide di spostarsi nella città vicina che è lì ad aspettarli, vuota e come nuova, dove ognuno prenderà un altro mestiere, un‟altra moglie, vedrà un altro paesaggio aprendo la finestra, passerà le sere in altri passatempi amicizie maldicenze. Così la loro vita si rinnova di trasloco in trasloco […]. Essendo la loro società ordinata senza grandi differenze di ricchezza o di autorità, i passaggi da una funzione all‟altra avvengono quasi senza scosse; la varietà è assicurata dalle molteplici incombenze, tali che nello spazio d‟una vita raramente uno ritorna a un mestiere che già era stato il suo.”
La gerarchia dei valori si è disciolta in una equipollenza degli stessi: la modernità liquida è post-gerarchica. I vecchi postulati di superiorità/inferiorità, che si presumevano strutturati da logiche e valori etico-religiosi inalterabili dal progresso sono stati erosi e
disciolti, e quelli nuovi sono troppo effimeri e fluidi da potersi consolidare per un tempo sufficiente per poter essere adottati a cornice di riferimento per la composizione dell’identità.
Il filosofo e sociologo coreano Byung-Chul Han evidenzia questo cambiamento come il passaggio dalla società disciplinare alla società della prestazione: laddove la prima era dominata da negativismo (eccedenza del divieto) la seconda è caratterizzata da un’esasperazione dello schema positivo del poter-fare e del poter-essere; gli obblighi della tradizione cedono il passo alla responsabilità e all’iniziativa personale. L’individualismo, l’eccedenza di stimoli e la pressione a produrre genera disagio nelle forme della depressione, della noia e della stanchezza cronica.
Non essendo i destini individuali ormai più pre-definiti dalla nascita dalla famiglia o dal ruolo sociale, l’uomo contemporaneo è un uomo che è continuamente nell’atto di scegliere (homo eligens) e di sceglier-si!
“Una volta che l’identità ha smesso di essere un’eredità ingombrante (in quanto inseparabile da noi) ma confortevole (in quanto impossibile da perdere) non è più l’atto di un impegno valido per sempre in qualcosa che potrebbe e dovrebbe durare di qui all’eternità, ma è diventata piuttosto il compito a vita di individui orfani di eredità non negoziabili e privati di approdi credibili e fidati.”
Di fatto, qualsiasi incremento di libertà può essere letto come diminuzione di certezza e aumento della responsabilità. Per questa ragione, la prima delle emozioni tipiche della contemporaneità è l’ansia; nell’ansia l’individuo “ha un rapporto con il tempo come se il tempo fosse sempre avanti rispetto a lui”.
La consapevolezza della transitorietà degli incontri, della precarietà dei ruoli e della volatilità delle relazioni unitamente alla necessità di lasciare aperta ogni possibilità di scelta genera timore ed incertezza verso il futuro; un’angoscia di fronte all’indeterminatezza che fu chiamata dagli antichi horror vacui e che emerge quando, nella complessità dei contesti e nella pluralità delle identificazioni definienti -e spesso alienanti- è in gioco di volta in volta la mia identità.
Heidegger prevede ed anticipa questo tema, definendo l’ansia contemporanea come inquietudine costitutiva di perdere le fonti di determinazione esterna.
Non scegliere e rimanere in uno stato di totipotenza esistenziale può essere l’alternativa di elezione nel nuovo modo di esserci della contemporaneità, un modo in cui le possibilità vengono sfiorate col pensiero ma non generano movimento verso le stesse. L’emozione non mi riposiziona più rispetto all’azione e tutte le scelte sono in uno stato di sospensione. In questo caso, non rischio di perdere nulla, ma d’altro canto non apro nessun cammino: è quella che Bauman definì “etica del disimpegno” perché “la solidità è una maledizione”
in quanto l’uomo di oggi deve essere flessibile e costituzionalmente vigile, pronto a cambiare come cambiano gli altri.
Questo stato di impasse ricorda un altro eroe della modernità, l’Ulrich di Robert Musil. L’autore del romanzo denuncia le proprietà alienanti del mondo emerso dal primo dopoguerra rilevandone la frammentarietà, l’assenza di un centro e l’indeterminatezza, nonché il potenziale paralizzante del “senso di possibilità”; colui che ne sia afflitto è uomo non pratico, imprevedibile nelle relazioni umane e, vedendo anche se stesso nel possibile non può riconoscersi proprietà reali: diviene un uomo senza qualità. Tutto ora è come è, ma tutto potrebbe diventare o essere diventato ugualmente diverso.
In un mondo liquido-moderno, i luoghi hanno perduto la loro capacità di definire l’identità ed ancorare l’individuo; viene incoraggiato non tanto il legame di appartenenza alla terra natia, quanto la capacità di spostarsi -per lavoro, per ampliare le prospettive, per seguire il partner..- dovunque le mutate circostanze suggeriscano. Quella che Bauman definisce “cultura ibrida” si esprime nel paradosso della ricerca dell’identità nella non appartenenza; nella libertà di sfidare o ignorare le frontiere che vincolano i movimenti e le scelte delle persone inferiori, “i locali”. Anche l’altra terra rappresenta una delle alterità che popolano il fumoso orizzonte di chi cerca una cornice di contesto che lo de-finisca.
L’inclinazione verso l’altro (sia l’altro esserci in carne ed ossa, sia l’alterità astratta del ruolo, della regola e della moda) diviene la risorsa principale attraverso cui comporre l’identità personale. La seconda emozione dominante nella contemporaneità è quella che si alimenta della consapevolezza dello sguardo dell’altro: la vergogna.
Anche le relazioni interpersonali devono adattarsi ai modi del vivere liquido-moderni; i legami più convenienti sono quelli “allentati”, che si possano sciogliere senza troppi compromessi una volta nasca la necessità di cambiare scenario. Nonostante il relazionarsi venga percepito a livelli individuale e collettivo come una problematica necessità, in realtà sembra che alla ricerca esasperata per partner perfetto si contrapponga una tendenza al rifiuto delle relazioni stabili e durevoli.
Qualsiasi forma di stabilità, in una società liquida, è una prigione destinata a calcificare l’individuo nelle retrovie di un avanzamento inarrestabile. L’esperienza di legame ideale è quello di un tipo di contatto chiamato “essere connesso”; anziché parlare di partners si preferisce parlare di “reti” sociali. La connessione presenta dei vantaggi sulla relazione: ci si può disconnettere in qualsiasi momento, proprio come durante il web-surfing; si può manipolare l’interfaccia in modo da mostrare all’altro ciò che si vuole, costruendo forme di mediazione ad hoc che sono mutilazioni bi-direzionali dell’originaria reciprocità emotiva; inoltre, essere connessi ad una rete presuppone molteplici links: se salta un collegamento la rete non collassa poiché sostenuta da innumerevoli altri contatti.
Queste relazioni virtuali sono un facile compromesso quando si ha bisogni di tanti “altri” e dei loro continui rimandi, ma mai troppi invadenti e senza reciproche pretese, promesse ed impegni:
“Tutto questo avvicinarsi ed allontanarsi rende possibile seguire simultaneamente l’anelito di libertà e la brama del senso di appartenenza -e di mascherare, se non compensare pienamente, la fallacia di entrambi gli struggimenti.10”
Questi nuovi modi di essere incarnati generano situazioni emotive del tutto peculiari.
La necessità di adattarsi e di gestire le proprie emozioni e i propri modi di essere al variare dei mutevoli contesti, insieme al progresso tecnologico culminato con lo sviluppo dei succitati nuovi media (da internet al mondo del social networking) che pongono un filtro tra l’uomo e l’esperienza ha prodotto il fenomeno che Arciero chiama cognitivizzazione o de-corporizzazione del sentire: l’emergere di nuovi tipi di emozioni socialmente trasformate che hanno alto contenuto cognitivo e pochissima attivazione viscerale, in quanto devono essere continuamente riadattate, gestite e giocate con un certo grado di flessibilità. Il veicolo principale di accesso all’emotività e il registro-linguistico riflessivo.
Lo schermo di parole fa sì che l’emotività perda immediatezza, trasformandosi in una percezione emotiva vicaria (esperita mediante la sintonizzazione sullo sguardo dell’altro) tale da spingere l’individuo a chiedersi: “Sono proprio io quello che sente?”.
Il problema dell’identità nella post-modernità si alimenta quindi di un paradosso: l’imperativo della società contemporanea è: “Sii unico, e trova da solo la tua strada!”, ma è attraverso alterità volatili che il mondo ci porta a definire noi stessi. Come sì può giungere ad esserci autenticamente se è attraverso l’altro-da-me che puntello la mia stabilità personale?
L’identità si trova perciò ad oscillare tra due diverse polarità; da un lato porsi al servizio del proprio movimento di volontà, vittima dell’ansia e dell’insicurezza che l’assenza di validazione altrui comporta, dall’altro essere parte di una collettività sovraordinata alle idiosincrasie individuali, generando un senso di inautenticità (Uneigentlichkeit) dell’esperienza, unita alla sensazione di esserne solo gli attori, ma non gli autori.
Navigando tra i poli dell’individualità senza compromessi e dell’adesione totale, il problema è la giusta distanza dall’altro, di volta in volta disperatamente necessario o fastidiosamente soffocante: questo è evidente nelle relazioni, ma anche nei modi di esperire ruoli e contesti. La dialettica tra il sé e l’altro si gioca quindi tra un senso di con-fusione e la percezione di annullamento; la personalità dal carattere etero-diretto rinegozia di continuo armonie e dissintonie con l’altro e fonda su di esse il proprio equilibrio. Il dramma assoluto consiste nella solitudine: il soggetto moderno non sopporta
l’altro, ma senza di esso non potrebbe sussistere poiché -negandolo- nell’intimità a sé troverebbe un vuoto incolmabile; ed è il vuoto l’altro stato psichico cardine dell’epoca che percorriamo. Non a caso Lipovetsky nei primi anni ottanta battezzò i nuovi tempi “l’ère du vide”, l’era del vuoto.

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BIBLIOGRAFIA

  •  G. Arciero, Sulle tracce di sé
  • T.S. Eliot, The Rock, 1934
  •  I. Calvino, Le città invisibili, p. 70
  •  Z. Bauman (2005), Vita liquida
  •  Intervista a V. Costa, da L’accento di Socrate, http://www.laccentodisocrate.it/costa5.html
  •   Z. Bauman (2003). Amore liquido, pag. 48

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